DINAMICHE INSEDIATIVE NEL BELLUNESE

AGGIORNAMENTI

di Giovanna Gangemi

Funzionaria della Soprintendenza per i Beni Archeologici del Veneto

 

 

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Il comparto territoriale considerato nella presente comunicazione è compreso in quella parte della Provincia di Belluno che si estende ad est e a nord-est dell’area feltrina fino a comprendere tutto il territorio cadorino.

L’habitat collinare-montano ed alpino gravita sostanzialmente sul bacino della media ed alta valle del Piave con i suoi affluenti e le piste terrestri che in antico si accompagnavano ad essi.

È ben nota la funzione mediatrice rivestita dal fiume Piave, asse fondamentale di collegamento, a partire dal Bronzo recente fino al tutta l’età romana ed oltre, nella reciprocità dei rapporti tra la pianura e le zone alpine, dove era possibile introdursi, attraverso le vie di valico di minore difficoltà, nelle aree transalpine per connettersi quindi a vie fluviali più settentrionali.

In questo sistema di comunicazione, per così dire, multimodale, si inseriscono altresì le direttrici trasversali terrestri lungo la pedemontana e le zone di collina, seguendo sentieri definiti nel tempo sul terreno dall’uso connesso alle necessità degli spostamenti umani.

Lungo questo asse si attivò una vivace circolazione di merci, di informazioni, di modelli e di fermenti culturali in grado di consolidare rapporti tra le aree a risorse diverse e di determinare fenomeni di stanziamenti, di maturazione, di osmosi.

Senza riprendere argomenti ormai noti alla ricerca scientifica, in questa sede si intende presentare alcuni dati di recente acquisizione, apporto di indagini archeologiche sistematiche a seguito di ritrovamenti occasionali e di interventi condizionati da situazioni di emergenza. Tali dati non vanno intesi come un consuntivo, ma come un contributo per un aggiornamento, integrando e rivisitando le informazioni precedenti alla luce di nuove scoperte, sulle dinamiche insediative e sullo sviluppo socio-economico e culturale di questo territorio nel quadro più vasto degli studi del Veneto preromano. Rilevanti testimonianze archeologiche provengono dalle indagini, tuttora in corso, nelle necropoli, in uso almeno fino alla fine del VII a tutto il V secolo a.C., venuta alla luce in località Pian de la Gnela di Pieve di Alpago, ubicata a nord-est del Passo di Fadalto, lungo il versante sud-orientale del rilievo del Monte Dolada - Col Mat. Il sito archeologico occupa la porzione settentrionale di un vasto terrazzo, in una fascia altimetrica compresa tra 900 e 950 m s.l.m., degradante verso la vallecola del torrente Tesa che confluisce nel lago di Santa Croce.    

I dati che qui si presentano costituiscono solo una sintetica anticipazione dei ritrovamenti, le cui valutazioni provvisorie andranno necessariamente integrate con quanto emergerà dal proseguimento degli scavi. Pertanto, in attesa di una casistica più ampia e articolata, si prescinderà da considerazioni relative ai criteri che presiedono all’organizzazione dello spazio della necropoli e alla ritualità funeraria.

Lo scavo sistematico, tuttora in corso, è stato intrapreso a seguito del recupero di una prestigiosa situla bronzea istoriata su tre registri. In breve, nei due spazi superiori è illustrata una teoria di personaggi maschili, ammantati e con copricapo, che richiama le figure sui frammenti di situla di Matrei. Nell’ultimo registro sono rappresentate scene di symplegmata e, quindi, la raffigurazione, del tutto singolare, di un parto con riferimenti, in chiave muliebre, alla metafora del potere (il trono, l’ascia, il bastone), a significare secondo la lettura proposta per la placca di cinturone di Brezije, l’acquisizione di status come un diritto ereditario per discendenza matrilineare.            

L’area cimiteriale, piuttosto estesa ed ancora poco indagata, è costituita da tombe a cremazione in cassette litiche di arenaria distribuite in due settori diversi, secondo criteri ancora da chiarire tra motivazioni a carattere parentale oppure socio-ideologico, separati da una depressione morfologica corrispondente ad un antico ristagno idrico.

Nel settore più a nord, meglio conservato, le strutture tombali, le più antiche finora documentate, sembrerebbero sormontate da un tumulo in pietrame, dato forse non più riscontrabile nel settore meridionale pianificato nel tempo da interventi antropici a carattere agricolo.

Come del resto in tutto il panorama della tarda protostoria italiana, la necropoli, allo stato attuale delle indagini, risulta caratterizzata in modo preponderante dalla presenza femminile, segnalata soprattutto da accessori di abbigliamento (varie tipologie di fibule, spesso dotate di pendagli complessi) e di ornamento (armille, per lo più gemine, pendenti, anelli, borchie, bottoni, vaghi di pasta vitrea e numerosi elementi, in varie fogge, di ambra).

Spiccano poi alcune sepolture, in contenitori metallici di pregio, afferenti a personaggi femminili di alto livello, le dominae, palesate dalla compresenza, in posizione semanticamente significativa all’interno della cassetta litica ma all’esterno dell’ossuario, di aghi di bronzo, di fusaiole in piombo e soprattutto di conocchie bronzee finemente decorate a sbalzo con motivi antropomorfi, ornitomorfi e geometrici.

La ricchezza dei corredi esibita nelle sepolture suddette concorre ad evidenziare l’attività elitaria correlata al ciclo della lavorazione della lana. A cui si connettono vivaci transazioni commerciali e conseguenti contatti culturali, che dovettero imprimere un’accelerazione nei processi di strutturazione sociale.

In particolare, conferisce sontuosità e prestigio la considerevole presenza di ambra, in un caso adoperata come rivestimento del corpo rettangolare di una fibula bronzea ad arco composto, che trova puntuali confronti in contesti ascrivibili alla cultura di Golasecca II B (ultimo quarto del VI - inizi del V secolo a.C.). Tale dato, assommato a quanto noto dei precedenti interventi nel circondario, costituisce forse una spia, per questa fase dell’Età del Ferro, di rotte orientali nella circolazione della preziosa resina fossile. A riguardo, non è da escludere un coinvolgimento nella rete dei traffici, sia pure di portata marginale, da parte di esponenti di gruppi emergenti locali.

Le informazioni, seppure ancora parziali, desunte dallo scavo di questa necropoli consentono l’approccio ad una rilettura critica dei ritrovamenti e dei recuperi meno recenti nella media valle del Piave, che in questo periodo di particolare floridezza, peraltro nel clima transculturale della Koinè adriatica, accoglie un notevole incremento demografico, segnalato da una costellazione di insediamenti nello stesso comprensorio dell’Alpago, nel territorio contiguo di Ponte nelle Alpi e nel vicino circondario di Belluno. Si configura così in ambito unitario di circolazione di merci, di persone  e di idee.

In un quadro di relazioni ricco ed articolato, sembra, come evidenziato dai corredi tombali, che questo comparto territoriale, posto tra la pianura veneta orientale e l’area friulana, abbia svolto una funzione di interfaccia tra cerchie culturali diversamente caratterizzate.

 In tal senso, da una parte appare orientato verso la cerchia delle colline e delle Prealpi, a loro volta collegate in senso trasversale e in grado di intrattenere facili rapporti con le aree alpine e transalpine, dall’altra risulta aperto a circuiti commerciali di ampia diffusione, permeati peraltro da influssi culturali irradiati dalle sponde adriatiche.

Come per Montebelluna, particolarmente stretti si confermano i legami culturali con il distretto carnico ed isontino (cerchia della necropoli di Santa Lucia di Tolmino). A tale ambito rimandano in specie oggetti di ornamento ed elementi del costume, quali le perle di pasta vitrea gialla con decorazione a zig-zag marrone, prodotte probabilmente in Slovenia, la pinzetta di bronzo, gli anelli a dorso costolato, alcuni pendagli compositi e le armille bronzee tubolari a capi sovrapposti.

Rimarcano un carattere prettamente alpino alcune tipologie come la cista cordonata, utilizzata in funzione di ossuario; più specificamente, riconducono all’arco alpino orientale classi di materiali elaborate nell’ambito della cultura di Golasecca, quali le fibule a sanguisuga con incrostazioni di pasta bianca (o di corallo?) e il pendente a secchiello.

Consistente appare poi la presenza di tipologie ad ampia circolazione, come la fibula a navicella con decorazione geometrica sull’arco, gli anelli con estremità a doppie spirali affrontate, che si rapportano puntualmente all’area medio-adriatica, e i pendenti a trianello, a manina, a globetto e in lamina triangolare.

Non trovano per ora riscontro nel territorio alcuni esemplari di pendenti a doppia protome zoomorfa in pasta vitrea blu, che richiamano piuttosto fogge di diffusione circumadriatica, attestate particolarmente in ambito piceno per lo più attraverso esemplari di bronzo.

Le recenti scoperte a Mel di aree di abitato si inquadrano cronologicamente. Sulla base dei darti archeologici, a partire dalla fine del VI secolo a.C. fino almeno a tutto il V secolo a.C., allorché nei poli principali del Veneto antico si era ormai delineato uno stile di vita di tipo urbano.

Si vengono così a confermare quelle scelte insediative, basate sulla piena consapevolezza delle potenzialità logistiche di questo sito collinare, in posizione dominante sulla sinistra della media valle del Piave, che già nel corso della prima età del Ferro dovevano aver favorito i contatti esterni e la formazione di gruppi aristocratici, di cui sono espressione, tra l’altro, i ‘circoli funerari’.

A partire dallo scavo di emergenza in località Cioppa., condotto nel 1995, tutte le attestazioni di abitato risultano concentrate nel Parco degli Alpini alla località Cioppa, cioè lungo le propaggini sud-occidentali, affacciate sulla valle del Piave, del rilievo collinare su cui sorge l’attuale centro storico. Scavi di emergenza ed indagini archeologiche preventive in cantieri di edilizia privata e di pubblica utilità hanno, infatti, evidenziato contesti archeologici in cui è stata documentata la presenza di strutture murarie associate a canalette di scarico riferibili ad unità abitative sia isolate che accorpate.

 

                                                                                                                                                                                                                                             

 

 

 

 

 

 

                                                                                                                                    

 

La tipologia edilizia seminterrata con muri a secco si accosta alle tecniche edilizie, determinate sostanzialmente da condizioni ambientali e climatiche, tipiche degli insediamenti di altura delle Prealpi vicentine e veronesi e della regione perialpina abitata dai Reti.

Meglio documentata è stata un’unità abitativa sottratta nel 2004, nel fondo Rui-Sculli, ai denti della ruspa, per la quale, ad eccezione del settore più ad est posto al di fuori dei limiti del cantiere, è stato possibile avanzare ipotesi interpretative ricostruttive. Lo scavo archeologico ha portato alla luce i resti di una costruzione seminterrata a pianta rettangolare (4m x 10m circa) sul sedime di un edificio precedente, obliterato quasi del tutto dall’impianto dell’abitazione più recente.

Ai margini ovest e sud sono risultati evidenti i resti dei muri perimetrali segnalati dalla permanenza dei rispettivi zoccoli, costruiti a secco con pietrame locale e legante argilloso.

Lungo il lato nord invece l’assenza di un muro di zoccolo a indotto ad ipotizzare una parete di legno, indiziata in situ dalla presenza, all’angolo con il lato ovest, di una pietra poggiapalo, nonché di due lastre litiche in verticale, a probabile protezione di elementi strutturali lignei, e di una buca di palo più ad est. L’area compresa all’interno del perimetro murario, pavimentata in terra battuta su un vespaio di ciottoli, era suddivisa in due ambienti tramite una parete divisoria lignea, segnalata da un allineamento di buche di palo; nel vano ad ovest è stato inoltre documentato un piano refrattario per focolare. Sotto i piani pavimentali ovest ed est sono state osservate due canalette di drenaggio con fondi, pareti e copertura in lastre di pietra arenaria, a partire dal limite posteriore dell’incisione strutturale e quindi gradatamente in direzione sud. In una situazione stratigrafica danneggiata e poco esauriente, non è stato possibile accertare le modalità tecnico-idrauliche relative ai punti di sbocco delle acque di percolazione.

Una terza canaletta con tecnica del tutto diversa, probabilmente funzionale all’impiego di elementi lignei laddove è forse ravvisabile l’ingresso dell’abitazione, si è presentata in forma di prosecuzione verso est del limite perimetrale sud, il cui termine non è stato tuttavia definito a causa degli imposti confini di proprietà. All’esterno della muratura meridionale, attesta una notevole capacità di gestione dello spazio la presenza di un terrazzamento, forse porticato, con piano di calpestio in ghiaia inciso da quattro buche di palo, allineate sul fronte dell’edificio a partire dall’angolo sud-ovest.

In merito, l’estensione delle indagini fino al presunto limite meridionale del terrazzamento, purtroppo esterno al cantiere edile, avrebbe potuto fornire conferme del modulo costruttivo prospettato. Frammenti ceramici pertinenti a tipologie di uso domestico e una fibula Certosa, rinvenuti sui piani pavimentali, consentono di assegnare alla seconda metà del V secolo a.C. il periodo di utilizzo dell’abitazione.

           Al quadro archeologico già noto del popolamento di questo comparto territoriale in età preromana si può ora aggiungere anche il centro di Agordo, ubicato nella media valle del Cordevole finora non documentata per l’età del Ferro. Ivi, nel corso di sondaggi archeologici preventivi in un cantiere di edilizia privata, è stata recuperata, in giacitura secondaria, una fibula Certosa in bronzo, probabilmente defunzionalizzata in antico, di straordinarie dimensioni, databile dalla metà del V al IV secolo a.C.. Il ritrovamento conferma la diffusione di una tipologia documentata in un vasto territorio da Bologna a tutto l’arco prealpino e alpino, con riproduzioni di adattamento locale.

I recenti ritrovamenti, in alta quota, a Mondeval de Sora di San Vito di Cadore di due lastre inscritte, ancora da qualificare in merito alla funzione, attestano la capillare diffusione in ambito cadorino della scrittura venetica, che viene sempre più a configurarsi come scelta ed espressione di egemonia culturale in una realtà sociale tutt’altro che omogenea. Lo stato dei luoghi, a forte valenza socio-economica  nell’ottica delle attività dell’alpeggio e della transumanza anche tra aree a risorse diverse, che si andarono sempre più organizzando nel corso della romanizzazione, sembrerebbe motivare l’impiego della scrittura sia in ambito civile sia in quello religioso, nella misura in cui istanze socio-politiche si accompagnano e si mescolano a categorie del sacro.

A Pieve di Cadore un saggio archeologico preventivo, occasionato da lavori pubblici nei pressi della sede della Magnifica Comunità, ha raggiunto livelli coevi alla facies culturale Fritzens - Sanzeno segnalati da un frammento di una tazza ascrivibile ad ambito retico. In questa circostanza è venuto alla luce, in un settore sconvolto da interventi precedenti, anche un piccolo osso animale, di specie non ancora precisata, recante un’iscrizione venetica. Secondo un uso ben documentato in contesti di area retico-alpina e, minoritariamente, in ambito veneto, datati per lo più tra il II e il I secolo a.C., l’osso iscritto potrebbe essere riferito a pratiche di carattere mantico per l’interpretazione del volere delle divinità. Limiti di quota di cantiere hanno impedito una verifica stratigrafica più estensiva e puntuale, per cui, in assenza di ulteriori informazioni, si può solo postulare, in via del tutto generica, un rimando a cerimonie magico-sacrali di ambito domestico o di carattere pubblico.

Le notizie disponibili non sono sufficienti per capire il problema dei tempi e dei modi in cui il territorio in esame venne ad inserirsi nella civiltà romana; a riguardo lo stato delle nostre conoscenze permane un po’ troppo in ombra.

Restano dunque aperti gli interrogativi sulle scelte di priorità della politica romana riguardo alla condizione geografica della regione, alle sue potenzialità produttive nonché alla preesistente dislocazione e tipologia degli insediamenti umani.                                     

 

La graduale romanizzazione in senso culturale sembra comunque aver preceduto, forse anche come conseguenza dei traffici dei negotiatores, quella politico-istituzionale. Pertanto, quasi fino alla fine della Repubblica gli interventi romani nelle aree considerate apparirebbero sostanzialmente connessi, nell’ambito di una situazione socio-culturale complessa, ad una logica strategico-militare finalizzata ad ottenere un controllo politico indiretto sulle varie etnie insediate, specie in rapporto alle direttrici viarie. Si vennero così a privilegiare centri e punti di incontro in posizioni nevralgiche, quali luoghi di culto e di mercato di particolare rilievo per posizione geografica, non sempre necessariamente all’interno dei villaggi.

Anche sulla base dei risultati, seppure parziali e suscettibili di revisioni, dello scavo sistematico tuttora in corso del santuario in località Monte Calvario di Auronzo di Cadore, più chiaro sembra delinearsi quanto accaduto  da Augusto in poi o, piuttosto, a partire dai programmi cesariani e dalle iniziative triumvirali sottesi alle realizzazioni augustee; ma tutto ciò esula dall’ambito cronologico in argomento.                    ■

Giovanna Gangemi

                         

                                  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA del Gruppo ARCA

 

           L’ aggiornamento sui recenti ritrovamenti archeologici di epoca veneto-antica in Provincia di Belluno è stato il tema trattato nella conferenza, organizzata dal Gruppo, e tenuta dalla dott.ssa Giovanna Gangemi, autrice dell’articolo sopra presentato. Lo scritto è apparso nel volume ‘I Veneti Antichi- Novità e aggiornamenti’, CIERRE EDIZIONI, 2007 (copertina del testo a pag. 9).

        Più precisamente, la conferenza si è svolta nella sala Papa Luciani della chiesa arcidiaconale di Agordo il 31 maggio 2008 con il titolo ‘Nuovi dati dal Bellunese: dall’età preromana alla romanizzazione’. Il reperto più importante, presentato in modo appassionato dalla relatrice, è stata l’eccezionale situla di bronzo del Pian de la Gnela, in Alpago.

            La nutrita partecipazione (una cinquantina di persone) e le numerose domande poste fino a tarda sera, centrate soprattutto sulla grande fibula venetica ritrovata in Agordo, hanno riconfermato l’interesse degli Agordini per le tematiche archeologiche.

ARCA, riguardo al ritrovamento della fibula agordina, ha avuto una sua parte: appena è comparsa l’indicazione di futuri lavori edili in località Campo dei Fiori, il Gruppo, sapendo trattarsi di sito segnato nella Carta Archeologica Regionale, noto per i ritrovamenti di tombe alto-medievali avvenuti negli anni quaranta-cinquanta del secolo scorso, ha informato del fatto la Soprintendenza  Archeologica; di conseguenza i lavori di scavo edilizio sono stati ‘tallonati’ da archeologi (da Davide Pacitti e dalla sua equipe), permettendo il recupero della fibula.

 Anche se il reperto è stato trovato isolato da un qualsiasi altro contesto archeologico, è un  grande risultato: si tratta del primo indizio di vita dei Veneti antichi ritrovato nel Basso Agordino.                                                                                             

 

 

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