NUOVI DOCUMENTI SU VALLE IMPERINA

 

 

 a cura di FRANCESCO LAVEDER

 

La Biblioteca del Circolo culturale Agordino conserva la donazione “Francesco Da Giau”, una ponderosa raccolta di documenti, registri e contabilità appartenuti alla famiglia Crotta, relativi alla gestione delle miniere di valle Imperina. Si tratta di un archivio ancora in gran parte inesplorato, che ho potuto liberamente consultare grazie alla cortesia della Presidente del Circolo, Maria Del Din Dall’Armi.

In questo Notiziario vengono presentati due articoli, frutto delle mie ricerche in questo archivio, che riportano qualche notizia inedita sulla storia delle miniere locali, che nei primi secoli fu molto legata alla cultura mineraria tedesca.

Il primo articolo riguarda la concessione sullo sfruttamento delle miniere di rame del territorio di Agordo fatta nel 1507 ad un imprenditore tedesco, passato alla storia col nome di Venediger, che in quel periodo abitava a Tiser.

Il secondo articolo tratta di un’inedita lettera con cui l’alchimista Federico Gualdi, di origine tedesca, presenta ad Andreana Crotta alcuni nuovi metodi per la lavorazione e produzione dell’argento e, soprattutto, del rame, da impiegare nelle miniere di proprietà della famiglia. La storia mineraria si intreccia in questo caso con la cronaca rosa: Isidora, figlia di Andreana, era infatti la promessa sposa di Gualdi… .

 

Un imprenditore tedesco a valle Imperina:

Giovanni Hegner, detto Venediger

 

La concessione

sulle miniere di rame dell’Agordino del doge Leonardo Loredan

 a Zan Venediger, imprenditore tedesco abitante a Tiser:

 10 maggio 1507.

 

           La storia delle miniere agordine di valle Imperina è già stata oggetto di numerosi ed approfonditi studi. Le prime documentazioni dello sfruttamento di queste miniere risalgono all’inizio del Quattrocento, sotto il dominio della Repubblica di Venezia; per almeno un secolo, l’impulso agli scavi in questi giacimenti di pirite cuprifera fu sostenuto soprattutto da imprenditori e minatori tedeschi, di cui restano alcune asce da parata ed i documenti di alcuni processi per eresia della seconda metà del Cinquecento.

La prima concessione della Repubblica di Venezia sull’esplorazione delle miniere dell’Agordino risale al 1409 ed il richiedente è il tedesco Enrico di Heslingen.

La prima notizia certa sulla produzione di rame in valle Imperina risale al 1417, quando un certo Aycardus Alemanus de Valle Emperina rifornisce di rame il maglio di Padova.

Nel 1483 si ha invece la prima descrizione dettagliata di queste miniere, con una “fusina dove si colla rami” e con la presenza di “un maestro chiamato Sboicer, todesco, con una barba longa”, probabilmente un fonditore. L’autore è il veneziano Marin Sanudo (n.1466-m.1536) che ne parla nel suo diario di viaggio nella terraferma veneziana.

Lo sfruttamento delle miniere proseguì nel corso del Cinquecento, ad opera di vari imprenditori agordini, bellunesi, trevisani e veneziani, ma l’impulso decisivo all’attività mineraria locale venne dato dall’imprenditore di origine lombarda Francesco Crotta, che nel 1615 rilevò la concessione per la miniera, che era rimasta in gran parte abbandonata nei precedenti 30 anni.

La concessione sullo sfruttamento delle miniere di rame del territorio di Agordo fatta nel 1507 all’imprenditore tedesco Zan Venediger viene qui presentata integralmente per la prima volta. Esistono tre diversi documenti relativi a questa concessione: il primo, già segnalato da Tamis, è conservato     

a Belluno; gli altri due sono delle copie dell’originale, di cui una, già segnalata da Vergani, è conservata all’Archivio di Stato di Venezia, mentre l’altra, inedita, fa parte della ponderosa raccolta di antichi registri appartenuti alla famiglia Crotta, nota come Donazione Giau, oggi custodita presso la Biblioteca del Circolo culturale Agordino.

 

 Chi era

Zan Venediger

 

           Il primo fatto da sottolineare è che Venediger non è verosimilmente il vero cognome di questo imprenditore minerario tedesco, ma un soprannome; nel dialetto atesino-tirolese infatti venediger, la cui traduzione letterale sarebbe “veneziano”,significa “minatore”; nel manoscritto conservato a Belluno il cognome risulta Hegner.

Lo storico bellunese Francesco Pellegrini, attingendo a diverse fonti, fra cui i Diarii di Marin Sanudo, ne tratteggia così la figura:

“Un ricco industriale tedesco stabilitosi da poco tempo colla sua famiglia a Tisèro, che faceva lavorare le miniere e mercanteggiava di rame e di ferro; il quale ai 18 maggio 1504 domandò e ottenne dal consiglio dei nobili di Belluno l’indigenato o la naturalità bellunese al pari dei nati nella città e territorio, coi privilegi, onori, immunità ed esenzioni che per 5 anni accordava lo statuto ai novelli cittadini. Scoppiata la guerra coll’impero fu partigiano deciso di questo: e nel luglio 1510 si adoperò in Belluno con ser Giovanni e ser Girolamo da Grino a riscuotere la taglia imposta dal capitano Liechtenstein: e, ripresa la città ai 21 agosto, Luigi Mocenigo gli perdonò la vita obbligandolo a riscattarsi col pagamento di 1500 ducati: anzi i capi mandati da questo ad occupare Agordo si spinsero fino a Tisèro alle case e possedimenti del Venadega, dove si impadronirono di tre mila libre di rame; come presero in Agordo 1500 lancie con ferri alla svizzera. Che cosa poi sia avvenuto del Venadega non si sa, e di lui più non si fa menzione. Forse, rimasti i nostri territorii definitivamente a Venezia, egli che s’era dimostrato così attaccato al partito imperiale, avrà abbandonato del tutto questi nostri luoghi, dove prima della guerra faceva così lauti guadagni”.

Ferdinando Tamis trascrive esattamente questo testo del Pellegrini e riporta poche altre notizie che riguardano Venediger, da cui risulta che egli avesse intrapreso anche un’attività imprenditoriale per la produzione di ottone (latón).

Dopo la concessione del 10 maggio 1507, il 7 giugno dello stesso anno ottenne infatti “solo lui poter far latoni per spazio de anni 30 in tutto il dominio” veneto; i Capi del Consiglio dei Dieci comandavano quindi al Rettore di Belluno di “prestar e far prestar ogni favor a esso messer Zuanne afar ediffitij per far simel latoni”; il 15 ottobre 1507 Venediger si rivolse al consiglio della città di Belluno per ottener il permesso di iniziare questi lavori, per cui aveva già comperato sulla riva del torrente Ardo un pezzo di terra, domandando di potersi allargare.

Altre notizie su Venediger, che Tamis ricava dai Diarii del Sanudo, sono relative alle ripercussioni sull’Agordino delle guerre fra Veneziani e Massimiliano d’Austria, successive alla Lega di Cambrai del 1508 e alla rovinosa sconfitta di Agnadello del 14 maggio 1509, nella quale i Veneziani persero temporaneamente il controllo dei territori di Terraferma.

Il 6 giugno 1510 Nicolò Barbi, diventato podestà di Belluno il 13 gennaio 1510, scrisse a Venezia una lettera nella quale avvisava dell’imminente discesa nell’Agordino di Leonardo Vels, chiamato Felz o Felzer dai cronisti del tempo, signore di Greifenstein nel territorio di Bolzano. Il 10 giugno Agordo venne invasa dalle bande tedesche del Vels, che si spostò poi nell’Alto Agordino, lasciando l’ordine di bruciare il legname destinato ai Veneziani. Viene riferito che in queste sue scorribande nell'Agordino “il Vels fu grandemente aiutato da un certo Venediger, detto dal Sanuto Veneleger e dai nostri Venadega”.

Il 17 giugno 1510 giunse ad Agordo Bartolomeo Corte, capitano del Castello Agordino e, in questo periodo Nicolò Barbi, scriveva che i nemici che occupavano l’Agordino:

“erano divenuti piacevoli e benigni, perché si era impedito che si portassero lassù le vettovaglie in quanto coloro che le portavano erano stati condotti via come ostaggi, sembravano quindi divenuti più miti anche riguardo alle taglie imposte; egli tuttavia aveva fatto sequestrare le entrate di alcuni di quei tedeschi, stanziati in Agordo, che lavoravano le miniere, specialmente del famoso ribelle Giovanni Venediger (Venadega)”.

Il 27 luglio 1510 il Castello Agordino fu attaccato e conquistato dalle truppe imperiali; il 21 agosto 1510 Belluno veniva riconquistata dal generale veneziano Mocenigo. Tamis prosegue scrivendo che:

“il 25 agosto 1510 i capitani Giovanni Delfino, Francesco Sbroiavacca e il decano di Treviso con i soldati si portarono ad Agordo per liberarla…I tre che dal Mocenigo erano stati mandati a liberare l’Agordino…si portarono quindi verso Primiero e trovati i luoghi e le proprietà di quel Giovanni Venediger (Venadega), gran ribelle, vi avevano rinvenuto una grande quantità di rame e dichiaravano che se l’erano ben guadagnato”.

                                                       

 

                                                                                                                                                                                                                                   

 

    Ulteriori notizie sulle vicende che riguardano Venediger dopo questa data si ricavano dai documenti che riguardano la politica mineraria della Serenissima, conservati presso l’Archivio di Stato di Venezia, già studiati da Alberti e Cessi.

Bartolomeo Corte, “Cavallier Gierosolomitano”, nominato dal Mocenigo capitano di Agordo subito dopo la riconquista di Belluno “con tutti li emolumenti che per questa causa li potessero venire” e “con doi edificij da foccina”, divenuto anche Vice-vicario delle miniere dell’Agordino, subentrò a Venediger nella gestione dell’attività mineraria di valle Imperina, dando vita ad un’impresa che impiegava da sola non meno di 100 operai, come testimoniano dei documenti in cui l’imprenditore tedesco è chiamato prima (1512) “Egner” e poi (1516-1517) “Venadega”.

La miniera di S.Giorgio, la maggiore e la più importante di valle Imperina, già ricordata nel 1483 da Sanudo come busa di San Zorzi, venne sottratta dallo Stato Veneto a Venadega che ne era proprietario, per “tacitazione dei suoi crediti” ed assunta da uomini e capitali veneziani.

Lo Stato Veneto assunse anche, dandola in appalto a privati, la gestione della principale fucina per la fusione del rame che apparteneva a Venadega “fiorita sul primo decennio del secolo, e sfaldatasi per la morte del titolare, senza che le fonti di ricchezza andassero perdute”; nel 1536 questa fucina “era lasciata in abbandono”, ma venne riattivata e data in appalto a privati nel 1542  “con facoltà di recupero di tutta la vena estratta da tempo immemorabile, e lasciata abbandonata nelle zone del Mis”; è stato ipotizzato che la “fusina da colar vena posta su lagua del Mis”, citata nell’Estimo del 1548 possa corrispondere a questo forno da rame di proprietà di Venediger. La conferma che egli fosse proprietario di forni fusori, già prima di ottenere la concessione sulle miniere di rame di valle Imperina, si trova nel documento originale del 18 maggio 1504 con cui a “Joannem dictu Venedega teutonicum habitans ad presens in loco de Tisero” venne data la cittadinanza bellunese e in cui si afferma che egli “habitante cum eis famiglia in dicto loco de Tisero in quo multum eris” svolgeva già un’attività mineraria, cioè “seu metali colari facit suis edificijs”.

La carenza di notizie relative alla sorte di Venediger negli anni successivi alle guerre cambraiche può essere in parte spiegata con il fatto che la storiografia veneta cercò il più possibile di nascondere ogni memoria filoimperiale; si può comunque ritenere che la concessione mineraria che gli era stata fatta, che aveva la durata di 15 anni, fu sicuramente revocata, così come quella trentennale per la produzione di ottone.

 

 

 

 

 

 

                                                     La concessione

                                                     a Zan Venediger

                                       e la politica mineraria Veneziana

 

 

 

 

 

 

    Dalle sue origini fino al 1666 fu il Consiglio dei Dieci ad amministrare totalmente il settore dell’attività estrattiva e mineraria nella Repubblica di Venezia; il primo decreto adottato che regolava l’attività mineraria risale al 13 maggio 1488 ed è costituito da 39 articoli, ripresi da una legge tirolese in vigore nella città di Schwaz.                                         

In particolare, il rame, per poter essere venduto, doveva essere portato a Venezia, dove la Serenissima esercitava il suo diritto di prelazione, pur dovendolo pagare a prezzo “di mercato”. Il contrabbando di minerali e metalli nobili, pur severamente sanzionato, era tuttavia fiorente, soprattutto verso i vicini territori di Trento, Bressanone e Tirolo. Il fatto che Venediger tenesse una così grande quantità di rame, forse nei suoi forni sul Mis presso Tiser, anche alla luce della sua manifesta attività filoimperiale, va quindi probabilmente interpretato nell’ambito della comune tendenza a trasportare di nascosto i minerali verso i territori tedeschi, per poterli lì vendere liberamente ad un prezzo “reale”, realizzando così maggiori guadagni; la stessa scelta di Tiser come luogo di residenza, va forse interpretata in quest’ottica: un luogo vicino alle miniere di valle Imperina, ma posto sulla strada che portava nei territori tirolesi del Primiero, attraverso il passo Cereda. I Veneziani dovevano aver ben presente questa possibilità, visto l’esplicito riferimento al divieto di esportare il rame fuori dal dominio della Repubblica Veneta presente nella concessione; a questo proposito è opportuno ricordare che nel 1487, durante la guerra fra Venezia e l’arciduca conte del Tirolo, truppe tirolesi, attraverso il Cereda, erano entrate nell’Alta Valle del Mis, mirando al possesso delle miniere di valle Imperina. Non è quindi da escludere che Venediger avesse stretto accordi commerciali segreti con i conti del Tirolo.

Un’altra consuetudine comune di quel periodo era la tendenza dei proprietari di miniere a pagare in natura i loro dipendenti, con cibo, bevande o mercanzie. Per questo motivo l’art.39 della succitata legge prevedeva che “alcun capo o Soprastante di Opere non possi tegnir, ne far tegnir Taverna, né vender Pan, Vin, Formazo, Carni, Drappi né altra Mercantia all’opere (al personale della miniera), che lavorasse sotto di lui, sotto gravissime pene”. Lo scopo era ovviamente di evitare che, vendendo tali cibi a prezzi maggiorati rispetto ai reali, i proprietari delle miniere ne traessero illeciti guadagni; i viveri importati nell’Agordino per il personale delle miniere erano infatti soggetti in quel periodo a sgravi fiscali che la Serenissima aveva concesso per promuovere lo sviluppo dell’industria mineraria locale, considerando la naturale difficoltà della produzione agraria in ambiente montano.

Dal 1483-1484 alcuni proprietari di miniere agordine (Giovanni Vittore Pietriboni, Luca Memore Paragatta e Antonio Gobesso) avevano ottenuto questo privilegio; i Veneziani erano evidentemente a conoscenza della tendenza ad abusare di questa esenzione fiscale, riscontrando evidentemente che la quantità di viveri importata era spesso maggiore di quanto era necessario a mantenere i lavoratori delle miniere.                                 

 

                                                                                                               

    Lo stesso Bartolomeo Corte, che nel 1514 aveva preso in affitto per un anno la Muda di Agre o semplicemente la Muda (il toponimo significa proprio dazio), nel 1517 era stato accusato di esportare nei territori tedeschi viveri importati in esenzione dei dazi per i lavori minerari; una lettera del 2 maggio 1517 ribadiva tuttavia l’obbligo al pagamento dei dazi. La controversia fra gli imprenditori minerari agordini e il consiglio di Belluno, che si riteneva danneggiato perché i dazi riscossi alla Muda costituivano per la città una buona fonte di entrate, proseguì negli anni successivi finché, dopo la fine del periodo burrascoso delle guerre cambraiche, nel 1519 venne ribadito l’obbligo al pagamento dei dazi e nel 1521 anche il Consiglio dei Dieci si pronunciò definitivamente sul fatto che gli imprenditori minerari “debbino pagare li Dazii”.

Il pagamento del dazio alla Muda, soprattutto per sorgo e vin, ma anche per orzo, segala, oglio di lin è attestato nei registri contabili dei Crotta durante il Seicento; si ritiene tuttavia che gli imprenditori minerari agordini riuscirono a sottrarsi in vario modo al pagamento dei dazi fino alla caduta della Repubblica di Venezia, continuando ad usare i viveri “agevolati” come merce di pagamento per gli addetti alle miniere. In questo contesto vanno quindi interpretate le esplicite limitazioni al trasporto di vettovaglie verso Agordo presenti nella concessione fatta a Venediger e l’invito alle autorità locali a tenere questa attività sotto stretto controllo.

L’analisi calligrafica delle due copie di questo documento consente di supporre che siano state scritte fra Seicento e Settecento. Nel 1649 i Crotta divennero patrizi veneziani grazie al pagamento di centomila ducati e nel 1651 riuscirono a ottenere nuove esenzioni daziarie così che si poteva “tradurre ogni mese da Venezia in Agordo tremila libbre di olio comune esente dal dazio e questa quantità doveva provvedere la miniera per 30 giorni”. Esenzioni daziarie erano già state concesse ad altri imprenditori tedeschi nell’Alto Vicentino, a partire almeno dal 1429; si può quindi supporre che la copia agordina della concessione fatta a Venediger potesse servire ai Crotta per sostenere che il principio legislativo delle esenzioni daziarie per le derrate alimentari destinate ai lavoranti nelle miniere valesse anche per le loro proprietà di valle Imperina.               

 

  APPENDICE

DOCUMENTARIA

 

Leonardus Lauredanus Dei gratia Dux Venetiarum. Nobilibus, et sapientibus viris de suo mandato Potestatibus, et Capitaneis Tarvisij, Feltri, Civitatis Belluni, et reliquis Rectoribus et officialibus nostris Territorij ipsorum ad quos haec nostrae litere pervenerunt Fidelibus dilectis salutem et dilectionis affectum. Quoniam in comissione per nos cum Consilio nostro X cum additione novissime facta prudenti viro Joanni Venedeger possendi effodere ramina e mineris existentibus in Agord territorij Belluni. Fuimus contenti quod et habere debeat omnes exemptiones victualium, et aliarum rerum pertinentium ad mineras prout habent alij minerales; volumus proinde et vobis auctoritate supra scripti Consilij X cum additione mandamus ut, quotiescumque erit eidem Joanni necesarium pro usu et victu hominum suorum laborantium in mineris ipsis conducere, et conduci facere frumentum ut alia blada, vinum, carnes, et caseum in Agord datto prius illi Sacramento quod huiusmodi res non sint ad alium finem quam pro victu et usu ut suprascripto ipsorum hominum, ei concedere et impartire debeatis possendi extrahere et eas conducere absque ulla solutione vel impedimento ad locum illum, habito semper respectu ad numerum, et quantitatem operariorum suorum, nec non advertendo ne sub hoc pretextu extrahatur maior quantitas quam esset necessaria et ad alia loca exportaretur, quod si evenerit, nobis profecto molestissimum erit prout et ipsi Joanni coram diximus, et proinde eritis occulati tenendo particulare computum de tota quantitate rerum ipsarum per eum ad effectum suprascriptum de tempore in tempus extrahendarum ne ullo modo dominium nostrum defraudet valituris presentibus durante concessione ipsa hoc est per annos XV proxime futuros.

Datj in nostro Ducali Palatio, die Xmo Maij indictione X.ma 1507.

 

Leonardo Loredano, per grazia di Dio doge di Venezia ai Nobili e sapienti uomini, Podestà per suo mandato, e ai Capitani di Treviso, Feltre e della città di Belluno e ai rimanenti Rettori e Ufficiali del Territorio ai quali pervennero queste nostre lettere salute e affetto di dilezione ai Fedeli diletti. Poiché nella commissione costituita da noi e con la recentissima aggiunta del nostro consiglio dei Dieci, all’esperto uomo Giovanni Venedeger (fu concesso) di poter estrarre rame dalle miniere esistenti ad Agordo nel territorio di Belluno, fummo contenti che debba avere anche tutte le esenzioni sui viveri e sulle altre cose riguardanti le miniere come hanno gli altri imprenditori minerari. Vogliamo perciò e vi comandiamo con l’aggiunta dell’ autorità del soprascritto Consiglio dei Dieci che ogni volta che al medesimo Giovanni sarà necessario, gli sia concesso di condurre e far condurre ad Agordo frumento o altri cereali, vino, carni, formaggio, per uso e vitto dei suoi uomini lavoranti nelle stesse miniere, avendo però prima egli dato giuramento che le cose di questo tipo non siano usate per altro fine che per vitto ed uso dei suoi uomini, e che dobbiate concedergli di poter estrarre e di condurre in quel luogo queste (merci) senza alcun pagamento o impedimento che abbia sempre rispetto del numero e della quantità dei suoi operai e del fatto che, senza accorgersi né sotto questo pretesto, si estragga una quantità maggiore di quella necessaria e che sia portata in altri luoghi, poiché se ciò avvenisse sarebbe per noi certamente un fatto molto increscioso, come dicemmo anche davanti allo stesso Giovanni, e che inoltre siate oculati tenendo un conto particolare di tutta la quantità delle stesse cose dirette a lui che, per effetto di quanto sopra scritto, saranno estratte nel corso del tempo, né in nessun modo frodi la nostra signoria nelle circostanze in vigore durante la stessa concessione e ciò vale per i quindici anni prossimi futuri.

Dato nel nostro Palazzo Ducale il giorno decimo di maggio, indizione decima 1507.

                                 

Le immagini presentate con gli articoli di  F. Laveder

sono tratte dal testo:

 “Tesori d’arte nelle chiese dell’alto Bellunese-AGORDINO”

a cura di Monica Pregnolato - Provincia di Belluno Editore 2006.

 

 L’articolo su F. Gualdi uscirà sul n.1 del 2009 dell’Archivio Storico di Belluno Feltre e Cadore, mentre quello su Z. Venediger verrà pubblicato sul n.3 del 2009, 

entrambi corredati dalle note dell’autore.

 

 

                                 Federico Gualdi a Andreana Crotta                                       

 

 

                                                                                                                    Brevi note biografiche su Federico Gualdi

 

 

 

 

 

           L’opinione prevalente sulle origini di Federico Gualdi, figlio di Guglielmo di Germania, è che si tratti di un tedesco di nome Friedrich Walter, probabilmente originario di Augusta. Visse a Venezia per un lungo periodo (verosimilmente fra il 1650 ed il 1682, ma documentato con certezza solo dal 1660 al 1678), svolgendo diverse attività; fu un personaggio versatile ed eclettico, poliglotta, astronomo, matematico; fra il 1660 e il 1663 progettò uno sbarramento mobile della laguna di Venezia per proteggerla dal fenomeno dell’acqua alta.

Accusato di essere capo di una setta che praticava la magia e l’alchimia, fu oggetto di un’indagine per eresia da parte del Sant’Uffizio di Venezia (1676), che tuttavia non sfociò in un processo; Gualdi è infatti considerato uno dei capi dell’Ordine della Rosa-Croce d’Oro.

Fu quindi soprattutto un alchimista, circondato da un alone leggendario, tanto che di lui si scrisse che aveva raggiunto il possesso del “segreto divino” della Pietra Filosofale e dell’elisir di lunga vita; fu per questo preso come modello e maestro dal ben più noto Cagliostro. Le incertezze sulla durata effettiva della sua vita sono accresciute dalla possibile esistenza di un primo e un secondo Gualdi e di un alter ego, presente in terra tedesca verso il 1716 con il nome di August Melech Hultazob, principe di Achem.

Riguardo alla sua relazione con la famiglia Crotta venne scritto:

“… presa egli non sò come, l’amicizia con alcuni Nobili Signori di questo Stato ricchi di Minere, mà da molte jatture impossibilitati a coltivarle, cominciò ad impiegarci somme così considerabili di denaro, che in poco tempo arrivarono alla quantità di sopra sessanta mille ducati. Si compiacque egli intanto della bell’indole d’una figlia di quella Casa, benche ancor fanciulletta, e la di lei Madre obligata alle di lui bontà, per le quali migliorate infinitamente le sudette Minere, la Casa era risorta, stimò non poter meglio corrispondere, che con l’accumunare il suo sangue a quello di un tanto Benefattore; onde se bene l’età della fanciulla fosse ancora di molto lontana alla possibilità del Matrimonio, ne stabilì ad ogni modo l’essecuzione per il tempo opportuno, e ne firmò alcune scritture autentiche di promessa, con assegnamento di sedeci mille ducati di Dote, alla quale il Gualdi, in segno di aggradimento, corrispose con l’obligo d’una uguale Contradote, ma forse anche con l’intenzione di donare tutte quelle somme maggiori, che a Parenti aveva prestate.

Come però è pur troppo vero che honores mutant mores avanzati li detti Signori a grado più sublime, benche forse preceduto da’ di lui ricchi benefizii, stimarono non dover più apparentarsi con un Uomo ignoto, e cercarono di stornare il contratto. Disgustato egli di simile procedura, s’allargò dall’amicizia, e ricercò la restituzione de’ denari prestati, al che venendo interposte molte disdicevoli dilazioni, si passò a’ Tribunali, mà finalmente per troncare li dispendii, & i litigi si contentò il Gualdi di perdere per via di transazione la metà del suo credito, ottenendone in iscambio dichiarazioni per esso decorose, & onorevolissime”.

 

 Gualdi rimase in stretto contatto con i Crotta per almeno 3 anni (1663-1666); nel 1663-1664 rimase prevalentemente a Venezia, dove curava i loro interessi commerciali; visse ad Agordo sicuramente per almeno un anno, fra il 1665 e il 1666, gestendo in due diversi periodi le miniere di valle Imperina, sia in prima persona che per conto del suo agente Baldisera (o Baldasar) Chierz. Sembra che il principale motivo della discordia, insorta all’inizio del 1666 fra Gualdi e i Crotta, siano stati i conti del rame, come risulta chiaramente dalla documentazione relativa a questa vertenza giudiziaria.

E’ infine opportuno segnalare che il circolo rosacrociano di Gualdi a Venezia fu frequentato anche da Marc’Antonio Castagna, l’artefice principale e il promotore sia della riforma dell’amministrazione mineraria veneziana sia della nascita dell’azienda di stato nelle miniere di valle Imperina, avvenuta proprio in questo periodo.

 

Brevi note biografiche su Isidora Crotta

 

Isidora Crotta, figlia di Andreana, era nipote di Francesco Crotta (n.1575-m.1640), l’imprenditore lombardo che diede l’impulso decisivo allo sviluppo delle miniere di valle Imperina all’inizio del Seicento; il padre di Isidora era infatti Giovanni Antonio, figlio di Francesco, nato nel 1622 e ucciso il 2 settembre 1654 da due sicari probabilmente assoldati da suo fratello Giuseppe (n.1614-m.1666), che per questo motivo subì il bando perpetuo dai territori della Serenissima e la confisca di tutti i beni, compresa la sua parte di proprietà delle miniere di valle Imperina, da cui, nel 1665, prese origine l’azienda statale. Alessandro (n.1650-m.1737) e Filippo (n.1648-m.1679), fratelli di Isidora, raggiunta la maggior età, iniziarono a dirigere la miniera dei Crotta al posto della madre, Andreana Corte, che, dopo la morte del marito aveva assunto una posizione di leader tra i concessionari delle miniere locali.

I Crotta erano divenuti patrizi veneziani il 23 aprile 1649 grazie al pagamento di centomila ducati; furono i primi bellunesi ad ottenere questo titolo nobiliare, tanto che l’evento è ricordato da una lapide murata all’esterno di Palazzo Rosso, sede del Comune di Belluno.

Fu probabilmente Andreana a curare i rapporti familiari con Venezia, facendo in modo che tutte le sue figlie si sposassero con nobili veneziani; a Venezia i Crotta possedevano una casa, il palazzo Calbo-Crotta “agli Scalzi, sul Canal Grande”. 

Isidora si sposò nel 1670 col patrizio veneziano Francesco Falier fu Zanne, con una dote di 16.000 ducati e morì a Venezia nel 1694 all’età di 44 anni; fra i documenti conservati nella donazione Giau si trovano anche i “contratti di Dotta”, datati 13 novembre 1663, con cui Andreana Crotta aveva promesso Isidora come sposa a Federico Gualdi, con una dote di 16.000 ducati, la stessa cifra impiegata poi nel matrimonio effettivo, dopo che le nozze con Gualdi andarono a monte.

Isidora aveva quindi circa 13 anni quando sua madre, a sua completa insaputa, stipulò questa promessa di matrimonio, da cui risulta che in quel periodo la fanciulla viveva nel “monasterio di Santa Maria Mater Domini” di Conegliano (TV).

 

 Metallurgia

dell’argento e del rame in valle Imperina

 

Le principali notizie sulla produzione di argento in valle Imperina, ricavato soprattutto nel corso del Cinquecento a partire dalla pirite piombo-argentifera, minerale molto povero in argento, sono già state riassunte in altri studi. Piloni ricorda che l’Arciduca del Tirolo nel 1487 “voleva occupar le minere d’Argento et Rame” che si trovavano nel territorio di Agordo e che “erano dalli Paragatta et dalli Pietrobuoni possedute”. Si ha notizia che già nel 1521 l’estrazione di argento e piombo in valle Imperina non era particolarmente remunerativa, tanto che i concessionari “tentarono, sebbene invano, di sottrarsi all’onere della decima”; nel 1548 a valle Imperina erano presenti un “larin” e due forni “da finar arzento”. Nel Cinquecento una “busa d’argento” venne data in affitto a Nicolo Balbi e ai Pietroboni, che continuarono a commerciare piccole quantità d’argento con Venezia fino alla fine del Cinquecento. I pochi dati esistenti indicano che la produzione d’argento in valle Imperina fu sempre modesta; lo stesso Gualdi scriveva che “la vena d’argento è povera”. Minime quantità di pirite piombo-argentifera continuarono a essere estratte anche dopo il Cinquecento, come riferisce Giovanni Arduino: “Vi si è trovata qualche volta framischiata anche della galena di minuta grana come d’acciaro, molto compatta, assai sulfurosa, e contenente col piombo dell’argento. Io conservo tra li miei minerali alcuni pezzi di quella, che incontravasi non di rado negli scavi minerali dell’Eccellentissima Casa Crotta, la quale via si gettava come materia inutile, anzi dannosa molto alla riduzione del rame; e davasele il nome improprio d’antimonio”.

Riguardo alle tecniche di lavorazione e fusione dell’argento in valle Imperina non esistono notizie precise, mentre si sa qualcosa dei metodi impiegati nell’Alto Vicentino. Non sappiamo se i metodi descritti dal Gualdi, che sembrano riferiti alla “liquazione” che precedeva la separazione dell’argento dal piombo, nei forni di affinazione con l’antico metodo della “coppellazione”, siano mai stati applicati, anche se tutto lascia pensare che siano rimasti solo sulla carta.

Il Gualdi fu invece sicuramente l’artefice di un’importante innovazione nei metodi di produzione del rame in valle Imperina. Andreana Crotta, dopo averlo ufficialmente nominato suo “legitimo et indubitato procurator, nuncio et commesso speciale” per gli affari relativi alle miniere, stipulò con lui un accordo, affermando di aver “fato caminare sino adeso nel modo e maniera de luso ordinario” l’attività delle miniere, mentre il Gualdi sapeva “cavare di più di quello si cava al presente”, decidendo quindi “di concederli facoltà di far lavorare à modo suo, et regolare il negozio di dette Minere à modo suo”; Gualdi stesso acquistò poi da Francesco Sommariva una “fosina da colar rame posta nella Val Imperina” e iniziò a produrre rame “tanto in sua specialità, quanto anco come procurator generale dell’illustrissima signora Andreana Crotta”.

Il minerale principale delle miniere di valle Imperina era la pirite cuprifera o calcopirite, un solfuro di ferro e rame. Sui processi antichi di produzione del rame a valle Imperina, per “via secca” e “via umida” esiste una vasta letteratura.

In estrema sintesi la lavorazione del minerale (vena) per produrre il rame (rame rosetta o finato) mirava ad eliminare lo zolfo, con ripetuti arrostimenti e a separare (scorificare) il ferro, con successive fusioni, in un processo di arricchimento a fusioni e arrostimenti alternati noto come “via secca”, di origine tedesca.

Il documento tecnico più antico che tratta di questo processo metallurgico risale al 1576 e si differenzia poco dalle descrizioni dei secoli successivi; una descrizione sommaria di questo processo viene fatta nel 1640 da Giovan Battista Barpo.

Una modifica sostanziale del procedimento di produzione del rame per via secca fu introdotta dal Gualdi, il quale propose di fondere a parte i tazzoni ottenuti dalla prima torrefazione del minerale, separandoli dalle terre rosse (terre vergini) che, evidentemente, fino ad allora venivano fuse assieme ai tazzoni; fra i documenti conservati nella donazione Giau, si trova infatti la conferma che, nel breve periodo (aprile 1665- ottobre 1666) in cui il Gualdi gestì le miniere in prima persona, rese operativa questa innovazione. 

                                       

                                                                                

Significativo è poi il fatto Gualdi proponga 5 successive fusioni (“si farà gran quantità di ston in 5 posate”), come descrive due secoli dopo Catullo nel “processo di riduzione o trattamento a secco della pirite”.

           Si può inoltre ragionevolmente ritenere che il Gualdi fosse a conoscenza dei principi della produzione del rame per via umida, anche se non specifica i dettagli del trattamento (“separare la terra rossa la quale si mette tutta da banda et bisongia salvar quella sin che vengero mi alhora diro che cossa si ha da fare con quella terra”); le sue parole (“in questo modo vi va da male assai Rame perche nella terra ve nè ancora, il quale è la verità… tanto di piu conservando quella terra tutta doppo si caverà anco da quella tutto il Rame che vi potria esser restato dentro et anco si cavera tutto il Vitriolo il quale addesso tutto va da male”) fanno infatti intuire che egli conoscesse i metodi della presunta trasmutazione del ferro in rame, di cui parlavano gli alchimisti del tempo (Basilio Valentino), procedimento allora circondato da un alone di magia, ma già descritto nei manuali del Cinquecento.

In valle Imperina piccole quantità di rame furono ottenute per “raffinazione” del vetriolo mediante il ferro negli anni 1580-83, probabilmente sulla base di un analogo privilegio concesso da Venezia nel 1556, ma l’innovazione fu presto abbandonata; il processo di trattamento del rame per via umida o “sramazione” del vetriolo venne quindi ripreso in valle Imperina nel 1670 nell'azienda Crotta, dietro privilegio chiesto e ottenuto da Alessandro Crotta (fratello di Isidora) dal Consiglio dei Dieci, come conferma una relazione del 1682, in cui si afferma che egli “tiene il partito di raffinar vetrioli, che continua molt’anni ancora, et in questa operatione estrae pure rame, se bene non di perfetta qualità”.                                                

Si ritiene che la “sramazione” delle terre venne adottata anche nell'azienda pubblica con la consulenza dell'esperto Johannes de Kinger di Ulm negli anni 1694-1695 e in epoca successiva il procedimento fu ulteriormente perfezionato.

In sintesi, alle terre rosse o vergini ottenute dalla prima torrefazione del minerale (vena), veniva aggiunto il minerale povero (chisso, dal tedesco kis “pirite”), arrostito in roste separate, ed il tutto veniva trattato con acqua (lisciviazione), ottenendo una soluzione ricca in solfati di rame e ferro, che veniva fatta reagire a caldo con rottami di ferro, ottenendo rame (di sramazione o cementazione) e una soluzione ricca di solfati di ferro, da cui per evaporazione si otteneva il vetriolo. Il rame di sramazione veniva poi inserito nel processo di fusione per via secca, in una delle fasi intermedie di arricchimento (le fonti a questo proposito non sono univoche, indicando modalità operative diverse); il notevole incremento   nella estrazione    di  chisso  a  fine Seicento  testimonia inequivocabilmente l’introduzione di questa nuova attività produttiva.                 

Tra i documenti della donazione Giau, si trovano anche degli indizi indiretti che Gualdi abbia effettivamente introdotto anche la produzione del rame per via umida; nel Conto Grande che riguarda gli anni 1665-1666 di sua gestione diretta della miniera, si trova la nota “per chisso dato a Giusto Buratini, può render vitriolo miara n.30 non ostante che sia l’attestato de miara n.18 in circa perché lasciava a lui le terre et altre grassine”; Gualdi quindi evidentemente sfruttava per suo conto le terre prodotte dalla torrefazione del chisso.

Pare quindi probabile che il merito dell’innovazione produttiva introdotta da Alessandro Crotta nel 1670 sia da attribuire al Gualdi, che solo pochi anni prima (1663) accennò a questo nuovo metodo di trattamento delle terre rosse.

                                        

 

Il dipinto 

di Santa Barbara

è stato eseguito

da Lattanzio Querena

nella prima metà dell’800 per la chiesa arcidiaconale 

di Agordo,

dove è tuttora visibile.

 

“L’opera è stata

fortemente voluta

dal Regio Stabilimento Minerario quale fulcro della secolare devozione alla

Patrona.”

 

 

 

                                                      APPENDICE DOCUMENTARIA

(c.9r) Ricevo tutto in un istesso tempo due gratiss:me sue Lettere, una delli 6 et laltra delli 12/

di questo, delle quale ho havutto gran consolatione intendendo il suo ben stare/

insieme con tutta la sua famiglia, et massimamente quella nel Monasterio./

Quanto al colar della vena d’argento, se V.S.Ill:ma trovera vena di piombo tanto/

che basta et che sia bona, si puo colare tutte due le vene insieme congiongendovi/

quelle cosse che adgiutta a colare piu facile, overo/ le scorie delle altre vene, overo

quelli sassi che facilmente fondano, cioè quando la vena fosse difficile a colar/

ma se la cola facile non fa di bisognio altro se non la vena di piombo con/

essa insieme unita: et cosi vingerà il piombo a sorbire quel poco

argento che potisse esser in ditta vene, et esso piombo insieme con quel poco/

argento misciato prenderia il fondo della busa, di sopra esso piombo cioè/

in meso saria colato il ston, et di sora de tutto in essa busa sarà le/

scorie, et poi il resto non occorre che scrivo, perche sanno li smelser come

si ha da fare./

Ma se V.S.Ill.ma non potisse havere la vena di piombo, bisogneria, nella/

busa primo mettere L:50 di piombo chietto, il quale si fonde prima/

cioè si ge mette delli stitij overo delle brase di sopra sino che sia colato/

quando esso piom[b]o stia fuso nella busa, alhora si cola la vena o da/

per se, overo con quelli suoi sassi chi adgiutano a colare et cosi vien fora/

il ston trovando il p[i]ombo fuso nella busa, alhora il piombo sorbe/

dentro in se l’argento, che tien il ston, se non tutto almanco la magior/

parte, et il ston resta sora il piombo, et poi sora il ston le scorie, le/

quale si leva prima et poi si leva il ston, rotto in pani overo cilelle/

conforma l’ordinario uso, et ultimam:te doppo diverse colate si leva/

anco il piombo il quale sarà pregno d’Argento, se la vena haverà/

havutta, ma se la vena non tiene Argento, neanco il piombo non/

tiengerà.

Per scivare poi tutte le sopra dette spese et fatiche di vena di piombo,/

overò quella del piombo cietto, jnsegnierò a V.S.Ill:ma il modo/

di colar essa vena, senza vena di piombo, overò senza piombo./

Come segue, bisognia prima prendere una bona parte del ston, di quello/

che si fa della vena di rame, et mettere quello in fondo cioè primo/

nelle fornase, et poi metter vi sopra la vena, se la cola facile, ma se/

la cola difficile, la vena misciata con li sassi quei chi facile fondano, et/       

poi sopra essa li carboni, et sopra il carbon le scorie, sin che sia impita/

(c.9v) la fornace, et cosi andando a colare, continuando di man in mano/

che si haverà fatto tanto ston che basta, ma se la vena cola facile [non]/

sara neanco di bisongia à mettere le sopra dette scorie, et in questo [modo]/ 

il s[t]on sorbirà suso l’argento se gene sarà perche quel ston [e di questa]/

natura di sorbire l’argento quando vi è poco ma quando vi fosse […]/

argento nella vena, non saria bona strada, ma per essendovi poco/

la piu breve et manco spesa, et poi quando si torna a colare la/

seconda volta bisognia prendere l’istesso ston che si ha fatto [nella]/

prima, et tornare con altra vena di novo a colarlo come sopra/

cosi vingera la seconda volta il ston piu prengia d’argento, di [quel]/

che era alla prima, et poi la terza volta prendere quel istesso […]/

et colarlo con nova vena, et cosi seguitando, sino che quel si/

sarà assai prengio d’argento, del quale si fa la prova nella coppella/

con un poco, et si vede quanto pregnio che sia: quando poi sia tanto/

che basta inpreingiato d’argento alhora si mette quel ston da parte/

e si fabrica del altro sino che si gene ha a bastanza, alhora si/

separa l’argento del ston conforme poi dirò./

Questo è un modo facile et siguro perche tutto l’argento che era/

nella vena non puo andare in nessun altro loco se non dentro nel ston/

massimamente essendo il ston di quella natura di insorbire l’argento/

come fa il piombo. Ma se alla bella prima non si volisse/

mettere il ston della vena di rame, si potria fare il ston di quella/

istessa vena d’argento, et quel saria ancora meglio: et cosi sene/

serve in diverse colature, con un istesso ston il qual sempre si va/

inprengiando di piu cioè quelli pani overo cillelle, nel fondo della/

busa tiene sempre la piu parte del argento./

Ma tutto questo che ho ditto fin addesso ha paura che non tornerà conto/

la causa è che la vena d’argento è povera, ma se dio volisse/

che piu profondo si trovasse la vena piu riccha, et ogni poco piu/

ricco che la fosse di quelche è addesso alhora tornerai ben conto/

perche la quantità faria, et il continuo./

Non ostante tutto questo io vorei consegliare a V.S. Ill.ma che con la Sua vena/

di Rame facisse nel modo come dirò, cioè per fabricare in manco tempo/

assai più Rame, con consumatione di manco carbon assai, già essendo/

la vena in abondantia, bisongia fargene rostire gran quantità,/

(c10r) et poi doppo rostitta far cavare tutti tazzoni et separare la terra/

rossa la quale si mette tutta da banda et bisongia salvar quella/

sin che vengero mi alhora diro che cossa si ha da fare con quella terra./

et bisognia torre tutti tazzoni et colarli, alhora si farà gran quanti=/

tà di ston in 5 posate con fruare manco carbon et questo ston/

sarà di meglior qualità et forsi non haverà di bisognia tanti/

focchi, come fa il ston addesso, et con più facilità si fara Rame/

in magior quantità et in manco tempo. forsi li smelseri/

potria dire che tutti tazzoni non colano così facilmente come/

fanno quando sono uniti con la terra, se ciò accadisse si ge puo/

adgiungere parte del ston ordinario il qual fa colare li tazzoni/

più facile et con piu prestezza, et fa il ston poi piu puro,:/

V.S.Ill.ma potria dire in questo modo vi va da male assai Rame/

perche nella terra ve nè ancora, il quale è la verità, ma/

avendo Lei la vena in abondantia gia cavata, et ancora in piu/

abondantia di quella che sè da cavare, non importa, tanto di piu/

conservando quella terra tutta doppo si caverà anco da/

quella tutto il Rame che vi potria esser restato dentro et anco/

si cavera tutto il Vitriolo il quale addesso tutto va da male./

questo è il modo di fare in poco tempo assai rame senza spesa/

di piu, ansi assai di manco solamente li putti chi sernisse li/

tazzoni. Et questo per questa volta basta addesso spero che/

haverò esplicato il mio senso tanto che credo che V.S.Ill.ma intendeva/

ma se vi fosse qualche cossa, non bene dechiarito, Lei mi facia sapere/

io l’esplicherò meglio in mentre di tutto core umilmente/

gli riverisco, et gli baccio le mani con augurandogli ongi felicità/

in sieme con tutta la Sua famiglia. in Venetia li 18 decemb:/

1663.

 

Di: V:S:Ill:ma

Humill:mo et Aff:mo G:

per sempre

                Federico Gualdi       

                                                         

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