I Ripari Villabruna

e la Cultura Epigravettiana

 

L’interessante e scientificamente proficua visita effettuata congiuntamente dagli Amici del Museo di Belluno e dall’ARCA di Agordo all’importante sito epigravettiano del “Riparo Dalmeri“ sull’altopiano d’Asiago, è stata occasione di una rivisitazione e magari di un confronto con l’altro insediamento culturalmente coevo rappresentato dai Ripari Villabruna.

 

La storia della scoperta

 

La storia del ritrovamento bellunese ha inizio nella primavera del 1987, quando Aldo Villabruna, da cui prenderà nome il riparo, transitando lungo la Valle del Cismon sulla strada statale che da Fonzaso conduce a Fiera di Primiero, giunto all’altezza del torrente Rosna, in seguito all’esecuzione di rettifiche eseguite in quel tratto stradale, si accorse che i lavori avevano portato alla luce, a ridosso di un’erta parete rocciosa, un riparo sotto roccia.

La lunga esperienza maturata in anni di ricerca archeologica di superficie lo portarono a individuare dapprima, nel terreno rimosso dalle operazioni di allargamento della sede stradale e di asporto di un conoide detritico che si appoggiava su un’alta parete rocciosa del fondovalle, una discreta quantità di manufatti in selce e di ossa animali e successivamente, dopo una più attenta indagine, a scorgere vicino alla parete rocciosa, nella sezione esposta residuata dall’asportazione dei mezzi meccanici, la presenza di livelli antropizzati, chiari indicatori di antiche frequentazioni preistoriche.

Raccolto il materiale di superficie più evidente, il giorno stesso il Villabruna, con il quale in quel periodo stavamo svolgendo un’intensa ricerca preistorica su tutto il territorio bellunese, mi fece visionare i numerosi reperti attraverso l’analisi dei quali ben presto ci accorgemmo trattarsi di un’industria litica da attribuirsi cronologicamente al Paleolitico superiore finale, in particolare alla cosiddetta Cultura Epigravettiana (circa 15.000-10.000 anni dal presente).

Grande fu certo la soddisfazione nell’esaminare quel complesso di reperti: da anni infatti andavamo ricercando insieme, ma senza esito, le tracce nel nostro territorio di queste genti; finalmente con questa scoperta si veniva a chiudere una lacuna cronologica e culturale sul popolamento umano del Bellunese, anche rispetto alle province limitrofe nelle quali queste antiche presenze erano già state documentate.

Immediatamente, il mattino successivo, dopo esserci recati sul sito, raccogliemmo nel terreno rimosso un ingente quantitativo di manufatti di cultura materiale: strumenti in selce, percussori per la scheggiatura e residui di lavorazione della stessa, ossi animali resti di pasto, ma soprattutto alcuni frammenti di ossa femorali e di perone umani che lasciavano ipotizzare l’esistenza di una sepoltura in loco.

L’attenta disamina della sezione di scavo risparmiata dalla distruzione dei mezzi meccanici, mise in evidenza ai nostri occhi, la presenza di due sezioni circolari collocate sullo stesso piano a pochi centimetri una dall’altra che interpretammo come le sezioni femorali di uno scheletro, da mettere in relazione alla mutilazione compiuta dalle pale di una ruspa, sugli arti inferiori dell’inumato.

Un’intuizione piuttosto azzardata per due semplici appassionati e cultori di archeologia preistorica che si rivelò poi, al di là di un certo scetticismo da parte dei competenti organi scientifici, estremamente azzeccata.

In seguito all’immediata segnalazione del ritrovamento alla Soprintendenza Archeologica per il Veneto, nella persona del funzionario di zona dott.ssa E. Bianchin e al maggior esperto in materia, il prof. A. Broglio dell’allora Istituto di Geologia dell’Università di Ferrara, venne programmata per il maggio 1998 una campagna di scavi che si rivelò di straordinario interesse.

Le indagini archeologiche portarono infatti alla luce tre ripari sotto roccia, il maggiore e più importante dei quali mostrava una sequenza stratigrafica, residuata parzialmente dai lavori stradali, che comprendeva a partire dai livelli superiori, testimonianze insediative da correlarsi dapprima all’età Neolitica, quindi al Mesolitico e infine nel deposito inferiore a diversi episodi di frequentazione da parte di gruppi epigravettiani.

Le ricerche furono essenzialmente mirate allo scavo della porzione stratigrafica più antica e meglio conservata: quella epigravettiana la quale ha restituito una notevole quantità di reperti: strumenti di ottima fattura e conservazione generalmente prodotti su selce grigio-nera del Biancone e rosso-nocciola della Scaglia Rossa quali: grattatoi, raschiatoi, bulini, perforatori, troncature, lame, lamelle e coltelli a dorso, nuclei e in particolare armature e le indispensabili punte a dorso da usare nelle battute di caccia.

Fra i materiali raccolti figurano inoltre alcuni rari strumenti in osso levigato come un perforatore e una spatola in osso di cervo e alcuni oggetti di carattere non utilitaristico, ma con funzione prettamente ornamentale: denti di cervo e conchiglie marine forati per essere usati come monili in particolare pendenti.

Ma l’aspetto più importante della ricerca deve essere indubbiamente considerato il ritrovamento di una sepoltura, scoperta nel livello più profondo e antico della sequenza antropica dei ripari Villabruna, proprio in quel settore e nel punto precedentemente individuato durante la nostra prima prospezione.

Un ammasso di detriti di brecciame concrezionato dello spessore di alcuni metri, all’interno del quale erano compresi altri depositi antropici, sovrastava la sepoltura, cosicché si dovette ricorrere all’uso di un demolitore elettropneumatico per riportare alla luce l’inumato.

La sepoltura

  Lo scheletro del cacciatore epigravettiano dei Ripari Villabruna

                   

Il corpo di un cacciatore venne deposto all’interno di una fossa scavata nel brecciame del piano di calpestio del sotto roccia e inumato in posizione supina col capo reclinato a sinistra e le braccia distese lungo i fianchi; accanto al braccio sinistro i suoi compagni adagiarono un corredo formato da tutti quegli utensili che dovevano costituire lo strumentario utilizzato quotidianamente in vita nelle sue attività venatorie, corredo che ora doveva forse accompagnarlo nelle battute di caccia oltre la morte; esso risultava composto da un percussore in calcare per scheggiare la selce, un nucleo da sfaldare per produrre strumenti, una grande lama, un coltello a dorso e una bella punta in corno di cervo levigato decorata da una serie di tacche; figurava inoltre una masserella a forma e grandezza di palla da tennis costituita da resina, propoli e ocra la cui funzione resta tuttora enigmatica.

Lo scheletro appartiene a un individuo di sesso maschile dell’altezza di 160 cm., di razza ora estinta detta di Cro-Magnon ( homo sapiens sapiens ), morto, come definiscono le analisi al radiocarbonio, circa 12.000 anni fa all’età di 26 anni, per cause sconosciute.

Il corpo venne poi ricoperto di un velo di terra e tumulato con grandi ciottoli fluviali raccolti nel sottostante torrente Rosna.

Alcuni ciottoli, a documentazione della versatilità artistica e spirituale di questi cacciatori, vennero poi dipinti con coloranti in ocra con motivi di tipo geometrico-schematico, ma anche naturalistico; essi al momento della scoperta ( fine degli anni 80 del secolo scorso ) rappresentavano la più antica testimonianza di pittura preistorica nel Nord-Italia, un record però ormai superato dagli attuali ritrovamenti ( A. Broglio ) avvenuti presso il sito aurignaziano di Fumane ( Monti Lessini ), di alcune pietre dipinte che retrodatano notevolmente ( oltre i 30.000 anni da oggi ) le prime manifestazioni artistiche dell’uomo in area padano-alpina, mentre l’altro recente e importante rinvenimento di oltre 200 pietre dipinte, scoperte nel Riparo Dalmeri, consente poi di arricchire in modo straordinario il patrimonio pittorico d’arte mobiliare dell’Italia Settentrionale.

 

Le pietre dipinte

 

Già al momento della scoperta della sepoltura epigravettiana dei Ripari Villabruna alcuni ciottoli del tumulo funerario mostravano segni organizzati di pittura; il più importante di questi, rinvenuto collocato all’altezza del bacino della salma del cacciatore, risultava dipinto con una rappresentazione schematica di tipo iperantropomorfo formata da una triplice linea longitudinale che solca in tutta la sua lunghezza ( circa 30 cm. ) il ciottolo, interpretata dagli specialisti in materia, come il corpo del defunto, mentre una serie simmetrica di linee spezzate che si dipartono da una parte e dall’altra della linea principale sono state interpretate come una moltiplicazione enfatizzata degli arti, con l’intento di evidenziare simbolicamente la grande forza del cacciatore.

Viene spontaneo collegare questo dipinto con quello similare raccolto nel “ sito santuario “ del Riparo Dalmeri dove, su una pietra dipinta compare il motivo schematico e stilizzato di una figura umana le cui caratteristiche figurative essenziali risultano piuttosto affini ( sono raffigurati con il medesimo stile pittorico solo gli arti superiori e inferiori senza moltiplicarli a dismisura ).

Fra le altre rappresentazioni pittoriche rilevate sulle pietre della Val Rosna sono poi da ricordare: un ciottolo recante delle fasce colorate di ocra violacea, un altro ancora dipinto con un motivo schematico di presumibile carattere alberiforme e ancora un ciottolo campito in ocra rossa su tutta una sua faccia, ma della quale si è risparmiato un ovale in cui venne inserita la raffigurazione di un palco di corna cervine e infine è da ricordare un’ultima rappresentazione meno definita, ma di carattere naturalistico che rappresenta la figura di un cacciatore in atteggiamento danzante.

Il complesso dei ciottoli dipinti può essere considerato come l’unica espressione artistica prodotta in Europa dall’uomo paleolitico in correlazione con una sepoltura, circostanza che esalta l’aspetto spirituale, artistico e culturale di queste genti della fine del Paleolitico superiore, un comportamento umano fortemente presente e tangibile anche nei gruppi di cacciatori culturalmente coevi che frequentarono il Riparo Dalmeri, dove alle manifestazioni pittoriche di carattere geometrico-schematico si affiancano le straordinarie espressioni naturalistiche degli animali selvatici, in particolare cervi, stambecchi e bovidi prede vitali per la sopravvivenza dei cacciatori epigravettiani, ma anche immagini ideologicamente dipinte per soddisfare quell’intenso bisogno rituale che trova riscontro nel profondo sentimento che traspare congiuntamente e unisce spiritualmente i cacciatori dei due ripari, situati anche geograficamente non molto distanti uno dall’altro.

Carlo Mondini

 

  

Foto a sinistra: ciottolo dipinto in ocra che ricopriva con altri lo scheletro del cacciatore di Val Rosna

 Foto a destra: pietra dipinta in ocra trovata al Riparo Dalmeri, riportante forse lo stesso motivo antropomorfo schematico della precedente; le datazioni dei siti permettono di attribuire una differenza temporale, tra un reperto e l’altro, di un migliaio di anni

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